Per un litigio in più

Mia madre ha il cancro.
Ieri stavo cancellando alcune foto dal telefono per creare spazio in memoria. Tra le tante ne ho selezionate alcune inviate il giorno di Pasqua, in cui è su di un’ altalena in mezzo al verde e sorride. Sembra una bambina, nonostante ormai non sia più giovanissima. Ho esitato un attimo e non le ho eliminate: il pensiero che un giorno avrei potuto rimpiangere quelle immagini ha percorso come un brivido gelido tutto il mio corpo.
Mia madre ha il cancro. Per la precisione il cancro al seno, scoperto da lei medesima mentre stava facendo la cosa più semplice ed abitudinaria che si possa fare: vestirsi. Un giorno mi vesto, l’altro scopro di essere malata. Suppongo che questa sia semplicemente la vita, che semplicemente capiti e il “perché a me, perché a noi” sia solo l’ultimo stadio della ricerca di quel qualcosa che in realtà non esiste. Un dio,un senso,il karma.
Mia madre ha il cancro e io non sono arrabbiata. Io non sono nulla a dir la verità. Credo che qualcosa tempo fa, dopo alcuni eventi, sia morto e abbia lasciato solo un putrefacente senso di astio verso il mondo. Non sono più capace di avere a che fare con i miei sentimenti. E’ tutto troppo, quindi preferisco il nulla ottuso e vuoto di pensieri e gesti inutili e ripetitivi. Ecco perché non scrivo più.
Mia madre ha il cancro e la sola cosa a cui riesco a pensare sono i nostri furiosi litigi di quando ero un’adolescente. C’è stato un periodo – durato parecchi anni – in cui ci siamo vomitate addosso le peggiori cose. L’ho odiata. L’ho trovata egoista. L’ho trovata più mia amica che mia madre. Porto nelle tasche della memoria più ricordi di incomprensioni, di battaglie, di lacrime che di momenti spensierati della vita passata con lei.
Mia madre ha il cancro e io non parlo con mio fratello. Una cose che ci hanno insegnato i nostri genitori, specialmente nostro padre, è che mai e poi mai vanno affrontati i propri sentimenti né tanto meno le questioni importanti. Si deve inghiottire il rospo e cercare di guardare dall’altra parte, sino a quando il collo non ci si spezza a forza di torcerlo.
Mia madre ha cancro e io non so cosa fare. Ho una vita qui a BlingBlingCity che dopo tanto stava iniziando ad ingranare e ora questo.
Mia madre ha il cancro e tra qualche giorno si saprà se la devono operare di nuovo, che terapia dovrà fare, se ci sono metastasi. Io aspetto il momento in cui crollerà e lo temo, lo temo più della malattia stessa. Ora è sorridente, positiva, cerca di aggrapparsi a quel che può. Ma io la conosco: anni e anni di delusioni, sconfitte e tradimenti ti insegnano che il peggio è la regola e non l’eccezione.
Mia madre ha il cancro e sono terrorizzata dalla chemioterapia. Cosa le dirò quando perderà i capelli? Dove sarò quando non riuscirà ad alzarsi dal letto perchè starà troppo male? Come farò a rispettare i miei doveri di figlia, ma anche quelli che riguardano la mia famiglia?
Mia madre ha il cancro e io penso che non inizierò mai davvero a vivere la mia vita.
Mia madre ha il cancro e un giorno potrei averlo anche io.

V.

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Nei panni di V.

Per lungo tempo per me le cose non accadevano mai realmente se prima non erano minuziosamente riportate su di un pezzo di carta. Litri di inchiostro su quaderni colorati per spiegare a me stessa la realtà. Ho sempre faticato ad avere contatto con quello che mi accadeva. Ad un certo punto la vita ha iniziato ad andare terribilmente veloce e non sono più riuscita a raccontare a me stessa la mia versione dei fatti. Il momento esigeva una risposta rapida, un’azione precisa e veloce priva di troppe elucubrazioni mentali. Ho iniziato a correre,correre e correre senza fermarmi per quasi due anni. Correvo senza guardare dove stavo andando, ma era impossibile fermarsi un attimo ed alzare lo sguardo.

Ora sto ancora correndo, ma il passo è decisamente più lento. Ogni tanto mi viene in mente la frase “se ti fermi muori”, no se ti fermi inizi a pensare e forse è anche peggio. Insomma sono qui perché ho un po’ perso me stessa. Ho dimenticato come si fa ad essere me, dopo che ho passato due anni a rivestire un’ infinità ruoli che mutavano ancor prima che potessi crogiolarmici un pochino.  Qui, in questo spazio virtuale, c’è sempre V. che mi attende.  V. mi ha dato tanto, anzi mi ha permesso tanto: attraverso questo pseudonimo ho potuto essere me stessa come non lo ero mai stata. Ho potuto esprimermi apertamente, cosa che per me è un evento più unico che raro. In questo momento mi piange il cuore nel vedere quanta fatica faccio a scrivere: le dita e l’animo sono un po’ arrugginiti. Ma voglio provare a trovare il tempo e la costanza per essere di nuovo V. perché un po’ mi manca. Ho voglia di raccontarvi dei viaggi che ho fatto, delle cose che vedo qui in BlingBlingCity,di quanto sia difficile essere come me nel tipo di vita che sto vivendo.
Ho voglia di essere ascoltata.

V. (che si spera sia effettivamente tornata)

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I nomi delle cose

Il posto che chiamo casa non parla la mia lingua. Il posto che chiamo casa nasce nel deserto e il velo sottile di sabbia che ricopre tutto ogni tanto me lo ricorda. Il posto che chiamo casa ha grattacieli altissimi: per tanto tempo ho camminato con il naso all’insù per riuscire a coprire con lo sguardo tutta l’immensità di questi palazzi. Il posto che chiamo casa è sempre pronto a sbalordirti, ad intrattenerti quasi che la naoia pare un peccato capitale. Nel posto che chiamo casa ho dovuto imparare tutto da capo, anche le cose più semplici. Nel posto che chiamo casa vedo pelle di mille colori e non c’è paura negli occhi di nessuno. Il posto che chiamo casa è pieno di superfici brillanti, abbaglianti, ma se sai scavare trovi anche sostanza. Il posto che chiamo casa è lontano da qualsiasi altra realtà.

Quella che chiamo famiglia posso solo vederla attraverso uno schermo. Mi manca, a volte, il tocco di quella che chiamo famiglia. Il tatto è per me il senso dell’ assenza per eccellenza. Le mani di mia madre che mi sistemano il vestito prima di uscire, il ruvido della barba di mio padre sulle mie guance quando ci salutiamo, gli abbaracci – rari ma stritolanti – di mio fratello, il pelo del mio cane in cui affondo il viso, le carezze timide di mia nonna che teme io sia troppo grande per certe cose. Quella che chiamo famiglia continua a vivere quel quotidiano che per quasi 27 anni abbiamo vissuto insieme, senza di me. Quella che chiamo famiglia litiga ancora, si urla addosso, si incasina, si preoccupa e io li osservo da qui con un distacco – a volte fallace – che ho imparato a costruirmi per non cedere troppo spesso alla mancanza.

Quelli che chiamo amici chiamano casa posti lontani, mangiano cibi strani, prendono in giro gli italiani e si portano l’assenza di qualcosa o di qualcuno sempre in tasca. Quelli che chiamo amici sono anche rimasti in quella che chiamavo casa, senza rischiare nulla, sempre percorrendo le stesse strade, sempre parlando le stesse parole, sempre guardando le stesse facce.

Quello che chiamo marito quando torna, prima di fare qualsiasi cosa, mi da un bacio. Quello che chiamo marito è capace di abbracciarmi forte quando sembra che mi stia spezzando, quello che chiamo marito mi prende la mano tutte le volte che camminiamo per strada. Quello che chiamo marito sembra in grado di fare tutto, senza quasi sforzo. Quello che chiamo marito percorre le strade insieme a me, rallentando il passo quando è necessario, per aspettarmi. Quello che chiamo marito non ha avuto paura nemmeno per un secondo, non ha avuto dubbi nemmeno per un istante. Quello che chiamo marito mi domanda se sono felice e a me basta quello per esserlo.

Quella che chiamo me ha lo stesso nome, ma una sostanza completamente diversa. Quella che chiamo me ha capito che l’essenziale rimane, ovunque tu sia; che il Noi aggiunge valore all’ Io, che ci sarà sempre qualcuno ad aspettarmi, che le scelte – giuste o sbagliate che fossero – portano ad un presente, ed è con quello che dobbiamo fare i conti. Quella che chiamo me riesce a fare cose che non credeva di riuscire a fare, intrappolata com’era nella vecchia definizione di se stessa.

V.

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Il dio deli atei 

La prima cosa che mi sono chiesta è perché succeda propria a me. Ho incolpato i miei lati peggiori ed anche i migliori, ho detestato gli errori commessi, le parole gridate con cattiveria nel corso della mia vita, gli sgambetti, le bugie, i vestiti inutili che si accumulano nel mio armadio, la banalità di certi miei pensieri, la mia intransigenza, la mia anima inesistente. La verità è che colpa non c’è, né espiazione. Certe cose accadono e accadono non perché sia tu, ma semplicemente perché sei vivo, semplicemente perché la vita accade.
Vorrei avere l’abilità di descrivere ciò che si prova quando un primo gennaio qualunque il medico ti chiama e ti dice che nelle analisi qualcosa non va. Le sinapsi non connettono più e il corpo è invaso, inondato, soffocato da tutte le paure più profonde. All’unisono.
Ricordo ogni singolo dettaglio del tragitto da casa all’ospedale, ogni riflesso sui grattacieli, le nostre mani che si stringono e tu che mi chiedi: “A cosa pensi?”. Questa domanda che spesso fai, mi procura sempre un sorriso, ma non questa volta. Questa volta sono spaventata dai miei stessi pensieri.
Sono passati un po’ di giorni, altri esami sono stati fatti e noi attendiamo. La statistica è dalla nostra parte, il medico è fiducioso, tutto è dalla nostra. Ma quando si tratta di vita o di morte, il tutto non basta.
Proseguo come se nulla fosse, non dicendolo a nessuno, ma mi ritrovo piena di rabbia con il cuore che cerca di scappare dal petto.
Dieci giorni per i risultati. Poi altri cinque. Poi… Spero che una felicità immane mi attenda, non perché lo meriti io – qui non si tratta di me – ma perché è giusto così, perché deve essere così. Non saprei come reagirei a una situazione del genere: parlare di dolore è riduttivo, è qualcosa che va al di là del sopportabile, del guaribile, del superabile. Non sai come ne uscirai, cosa ti rimarrà addosso a torturarti per sempre e cosa alla fine ti scivolerà addosso.
A volte mi sorprendo a pensare al freddo della sala operatoria, alla voce dei medici che meccanicamente fanno ciò che devono fare, al rumore dei ferri che si alternano nelle loro mani scavando nel mio corpo.
Il dottore – un egiziano copto – mi dice di pregare. Da quando, casualmente, ha scoperto che sono atea ha iniziato la sua personale e non richiesta opera di conversione. Io ormai ci rido su: mi è capitato così spesso, e con confessioni diverse, che mi sento quasi onorata di tutta quest’attenzione. Lui la vede come una situazione perfetta per testare Dio. “Prega, non hai nulla da perdere”. La vita del credente è sicuramente più semplice: avrà sempre qualcuno cui affidarsi, qualcuno con cui arrabbiarsi, qualcuno cui tornare. Avrà una spiegazione a ciò che accade, non importa se non intellegibile: il piano divino. Il credente ha la certezza del controllo, anche se questo controllo non è esercitato direttamente da lui. Dottore mi domanda sconvolto a chi mi affido quando ho bisogno, quando mi trovo in una situazione difficile. Lo sgomento sul suo volto mi fa capire tutta la fragilità dell’essere umano, quella stessa fragilità che spinge a creare idoli e congiungere le mani. Io sono da sola. Se mi trovo nella merda o ci affogo o spalo, non prego perché qualcuno lo faccia per me. Sebbene ora la tentazione di rivolgermi a un Dio sia grande – impotente come sono in questa situazione, zittisco la bambina mandata a catechismo che è in me. Non posso arrabbiarmi con nessuno, nemmeno con me stessa, non posso trovare una spiegazione a quello che sta succedendo. Posso solo sperare e immaginarmi quel futuro che nemmeno sapevo di desiderare così ardentemente.
In questa piovosa e fredda Italia in cui sono momentaneamente tornata, non cerco Dio. Gli atei hanno altro, hanno la realtà: a volte atroce a volte bellissima. Gli atei non pregano, gli atei sperano e contano su ciò che possono vedere, toccare, sapere. Gli atei non sono vuoti, come qualcuno una volta mi ha detto: il loro sguardo non è rivolto verso l’alto, ma negli occhi di chi è come loro. Esseri umani, con limiti, difetti, impotenti di fronte alla Vita.

V.

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Tutto quello che viene dopo il punto.

Ciò che amo di Murakami è l’importanza che dà all’introspezione. Il baratro esistenziale in cui si trovano i suoi personaggi ha sempre un caraterrere ambiguo: può uccidere o salvare, portando, in questo caso, ad una consapevolezza superiore. L’introspezione è la chiave. Attraverso una destrutturazione di sè, un riarrangiamento del proprio tessuto emotivo e vitale il protagonista risorge da quelli ceneri che lui stesso aveva creato. È un viaggio solitario e statico, tutto ciò che accade, accade dentro di lui. Il pericolo è quello di perdersi nei meandri della propria mente, di essere schiacciati da un Super-Io soffocante e punitivo. Dall’esterno nessun aiuto può giungere, se non per quei personaggi – zavorra che tentano di tenere a galla il protagonista, mentre questo immerge la testa in acque pericolese. Io sono un personaggio di Murakami. Per lungo tempo mi è stata fatta una colpa di ciò, sia da me stessa che da altri. Non è facile interagire con qualcuno che vive dentro se stesso, non riesci a ‘toccarlo’ e questo spaventa, credo. Ora – ora che si è divenati grandi, che si deve diventare grandi – mi sembra la cosa migliore che potessi essere. Non necessariamente perchè la sia oggettivamente, ma perchè è ciò che sono. Partire da ciò che si è, da ciò che si riconosce senza ombra di dubbio di essere è un buon inizio, in un tempo dove tutto muta troppo velocemente, le situazioni sfuggono di mano e ti ritrovi a vivere una vita così diversa da quella che ti aspettavi che non sei più preparta a…vivere. Alla fine ti lasci trasportare, ingnori le parti che ti hanno sempre costituita perchè il tempo per adattarsi è poco, devi essere leggera e modellarti rapidamente. Almeno in superficie. I pezzi che ti lasci dietro hanno polarità negativa e tu positiva: l’attrazione è inevitabile, dovrai farci i conti.
Ho litigato spesso con me stessa ultimamente a causa di queste strade intraprese quasi senza accorgermene,quasi senza scegliere,ma alla fine ci siamo dette: ehi pur sempre strade sono, non vicoli ciechi. Hanno nomi diversi e direzioni inattese, ma da qualche parte vanno.
Metto un punto.
Punto, barriera, stop. E davanti solo immensi spazi bianchi, senza linee da seguire.
“I know I was born and I know that I’ll die
The in between is mine
I am mine”

V.

 

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A 6223 km da casa

Ho scoperto cosa vuol dire aver nostalgia di casa. Proprio io che posseggo la più grande capacità di autocensura dei sentimenti. Invece è sgusciata via – infida –  da quel mio piccolo buco nero in cui tendo a buttare ciò che non deve essere mostrato o affrontato. Non si vive male qui, anzi. Non riesco solo a crearmi una quotidianità, una casa fatta non di pareti ma di abitudini, amicizie, luoghi famigliari. Non riesco perchè una piccola parte di me non vuole, è quella parte che ancora non accetta di essere qui e continua a fare a botte con la realtà. Poi c’è il resto di me: e quella è la parte più complicata da portarsi dietro. Complicata perchè ci sono cose che per me sono imprese titaniche, mentre per altri sono semplicissime. E io li invidio tantissimo. Presa coscienza di non poter essere come tali esemplari magnifici della razza umana – altresì detti estroversi – devo arrabattarmi con ciò che ho: la timidezza, la paura di fare figuracce e un inglese che mi muore in testa se vado troppo in panico (quindi spesso). Però si va avanti.

Si fanno PIANI. I miei piani sono sempre meticolosi e ben strutturati: non potete immaginare quanto mi ci aggrappi e quanto tenda a difenderli anche dal benchè minimo cambiamento. Poi c’è la Vita che quando vede un piano ben fatto – specialmente se mio – si diverte un mondo a prenderlo a sprangate. Me la immagino proprio vestita all’ Arancia Meccanica a frantumare tutti i piani ben congegnati che trova sul suo cammino. Che ci vuoi fare? Piangi, ti lamenti, ma in fondo vai avanti e fai quello che devi fare.

Questo è diventare adulti, credo. Perchè io in fondo mi sento ancora quella sedicenne impacciata e strana che non riusciva mai ad inserirsi. Ed ora che per la società sono ufficialmente, inesorabilmente, definitivamente, adulta mi porto  sulle spalle la me con la maglietta gigante dei Nirvana. Quella me pesa: quella me rimane nelle mie scelte di essere sempre ‘un po’ diversa’. Prendo posizioni e le mie posizioni sono sempre nette: mi rendo conto che non è facile farsi degli amici se si è così intransigenti. Però si è fedeli a se stessi e non ad un pubblico che si incanta con delle false verità su se stessi.

 

V.

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Orizzonti.

Com’è bianca questa pagina.

Vorrei potermi avvicinare e vedere il mio riflesso, riconoscermi. Questo è per me scrivere, è trovarmi o ritrovarmi. Per questo non lo faccio da un po’. Ho lasciato V. a seguire una vita senza portarsi dietro se stessa. Ho lasciato a casa me. Sono stata bene: ero vestita di una parvenza di normalità che penso di non aver mai indossato prima. In problema è che i vestiti si tolgono e la pelle che c’è sotto è sempre la tua, con tutta la tua storia. Sei sempre tu, ovunque tu vada.

Tra gli undici tentativi di iniziare questo post c’era anche l’idea di creare un parallelismo tra vita e scrittura. Peccato che vita e scrittura non c’entrino proprio un cazzo. Basta pensare a quanto sia difficile l’ incipit di qualcosa, un post, un libro, una poesia. Deve essere accattivante, richiamare l’attenzione. Quando nasci arrivi coperto di sangue e placenta, con una corda attaccata all’ombelico e urli. Urli. Credo che vi sia nel pensare comune un’idea romantica dei primi vagiti: il bambino piange per aver lasciato la sicurezza del ventre materno ed essere stato gettato, senza il suo permesso, nel brutto mondo cattivo.

No.

Se non urli appena uscito dal grembo di tua madre, muori. E credo che da lì non si smetta mai veramente di urlare per sopravvivere, per affermare la propria identità, la propria importanza. Sono state proprio delle grida – uscite dalla mia bocca – che hanno rotto, spezzato qualcosa dentro di me. Forse quelle barriere, quelle compartimentalizzazioni dell’anima che ho eretto per evitare che, se una parte era infettata dal dolore, contagiasse tutte le altre. Limitavo i crolli e quindi i danni. Così facendo finisce per mancarti una totalità, un’unicità da mostrare: scegli all’occorrenza un tuo aspetto da mostrare all’interlocutore secondo i suoi gusti. Dimentichi chi sei e ci sarà chi vorrà prendere possesso della tua vita, perché tu gliel’hai concesso.
Emergono istinti di sopravvivenza che non sapevi di avere. Un amor proprio che credevi di non aver sviluppato.

Questa volta non ho lasciato a casa nessuna parte di me, anzi ho ripiegato con cura i miei peggior difetti, le mie mancanze, il mio carattere di merda, le mie insicurezze, le mie paure e le ho portate con me come se fossero un tesoro prezioso. Ho portato tutto, ma proprio tutto. Rimiro le parti peggiori di me, quelle che ho disdegnato, ripudiato, per cui mi sono colpevolizzata. E non vedo l’ora di mostrarle, con orgoglio, a tutti quelli che non giudicheranno.

V.

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Come quella volta in cui mi sono dimenticata come ci si siede.

Questo è il luogo dove si accumulano scorie di una vita che vorresti limare, tagliare, resecare,ma ti mancano gli strumenti giusti. Quindi li butti qui, quei rifiuti.
Era bello qualche settimana fa guardarsi attraverso gli occhi degli altri: cercavano nel mio sorriso un tremolio di tristezza, nel mio sguardo lacrime che non scendevano. Sapevano tutti che sarei crollata. Si sono solo dimenticati che sono troppo educata per farlo in pubblico.
E poi da dove potrei iniziare per cercare di far capire come si sta a vivere nel mezzo? A non riuscire ad essere nulla in senso totale, ma solo tante cose a metà?
Mi manca quella casa con i mobili grigi e le finestre che si aprivano sul fiume, mi manca quella casa dove avevo immaginato la nostra famiglia, ma che è diventata l’ombra di una vita che abbiamo deciso di abbandonare.
Mi sveglio la notte chidendomi come farò. Incastro date, invento giorni di 25 ore e anni di 14 mesi. Non ho il tempo.
Non sono più un essere unitario, ma diviso in luoghi fisici ed emotivi così distanti tra loro che alla fine finisco per dimenticarmi pezzettini qua e là. Sono solo frammenti, ti dici. E poi capita che ti guardi distrattamente allo specchio e ti chiedi se quella che ti osserva dall’altra parte con sguardo interrogativo sei davvero tu.
La mia parte razionale è stata nutrita a suon di obiettività, ma sento ancora le unghie del vissuto che mi graffiano lo stomaco: ti ha abbandonato, è questo che scarabocchiano sulla mia parete gastrica. Ti ha lasciata a combattere da sola, a piangere da sola, a fare cose divertenti da sola.
Perchè vedete io posso anche indossare tacchi alti e sorseggiare mojito in compagnia; posso anche chiudermi in casa a studiare per una cosa chiamata ‘futuro’ e che inizia a non avere più alcun significato, posso anche andare al mare con le amiche, posso anche fingere che la mia più grande preoccupazione sia farmi le unghie; posso anche far finta di provare un qualche interesse nelle cose che mi si dicono, ma la verità è che inizia a non fregarmene più un cazzo. Perchè quando torno a casa, mi tolgo i tacchi e mi strucco non c’é nessuno ad aspettarmi sotto le coperte. Perchè non c’è più nessuno che mi difenda, perchè è difficle dimostare – nonostante tutto l’impegno – che si sta camminando nella stessa direzione. E anche quando finalmente – dopo ore di volo e terre e mari attreversati – sarò felice, si, ma avrò lasciato indietro una parte di me che non so se ritroverò. Mi sembra di perdere, in ogni caso.
Perchè ci si dimentica sempre delle cose più semplici, delle cose più elementari: respirare, sorridere, le chiavi di casa, un sogno o addirittura come ci si siede.

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V.

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Guardami negli occhi.

Panic Attack – Dream Theater

Una ragazza accovacciata sul selciato. Una ragazza accovacciata sul selciato urla. Urla così forte che non si sente null’altro intorno. Ogni cosa smette di produrre il proprio suono, si copre di quelle grida. Voglio fermarla, voglio farla stare zitta!

C’è una ragazza che grida accovacciata sul selciato di una piazzetta di una città qualunque.
Quella ragazza sono io. E voglio smettere di gridare.

Non sono io. [Non posso essere io. Io non mi comporto così.]
Non sono io in mezzo alle piume di piccione, ai passanti che attoniti mi guardano. Non sono io che sento le mie dita nei miei capelli: li vorrei stracciare via tutti, vorrei conficcarmi le unghie nella carne sino a farla sanguinare, vorrei farmi male sino a smettere di urlare. Mi dico di stare zitta, ma l’involucro di carne che mi contiene se ne sta immobile per terra, emmettendo gemiti che spaventano.
Non sono ferita.
Non mi stanno facendo del male.
Sento ogni parte del mio corpo sbriciolarsi sotto un peso che viene da dentro. Sto implodendo.
Vorrei lasciarmi li, fingere di non conoscermi, di non appartenermi. Vorrei lasciare li quella cosa rotta che urla e non riesce a smettere, vorrei lasciare lì quel contenitore spaventato a morte che ha il mio volto, vorrei essere oggetto perduto distrattamente per strada.
Non posso essere io.
Non VOGLIO essere io.

Ed ora ho solo rabbia dentro, una rabbia che non rieco a frenare.
Sono perfetta quando dico sempre di si, quando sono li a raccogliere i cocci di tutti – che siete così fottutamente bravi a rompervi con le vostre stesse mani. Li pronta a consolare cuori infranti, a fare da genitore, a cercare di limitare sempre i danni per gli altri, a pensare di non ferire sentimenti, di non lasciare impronte, di non sporcare in giro.
Silenziosa.
Invisibile.
Compare all’occorrenza.
Essere li a farvi contenti e a preoccuparmi che la mia presenza non nuoccia gravemente alla salute.
Ma sapete cosa? IO VOGLIO.ESIGO.
Voglio non mangiare carne senza sentirmi sputare sentenze in faccia senza nessuna cognizione di causa; voglio alzarmi quando cazzo mi pare, voglio che quello che faccio abbia un valore e che quel valore SIA RICONOSCIUTO. Voglio che i vostri cazzo di sentimenti siano feriti, voglio che voi vi mettiate da parte PER ME! PER FAR FELICE ME e solo ME.
E per un fottutissimo istante non me ne fregarà un cazzo delle vostre vite, dei vostri problemi, di quel cazzo che volete voi, di quel cazzo di sorrisino di merda che mi prodigo tanto per farvi venire su quella faccia irriconoscente. Non me ne frega una beata minchia di farvi sentire speciali, di pensare mesi prima al vostro regalo di compleanno quando non avete nemmeno la briga di scrivermi auguri per il mio.
Voglio che appreziate quello in cui credo, voglio che ascoltiate la mia voce e non l’eco della vostra mentre parlate con me, voglio che per una piccolo invisibile momento mettiate da parte quell’importantissimo sacco di merda che siete e mi guardiate: voglio che guardiate il casino che uno per uno avete fatto con le corde del mio animo e del mio cuore.
Ditemi che sono brava come si fa con le bambine che hanno fatto un bel disegno, ditemi che senza di me la vostra vita sarebbe un po’ più vuota, ditemi che una stracazzutissima volta sceglierete me e solo me, ditemi che le risate fatte con me hanno un sapore migliore, ditemi che non vomiterete su ciò che per me vale solo perchè siete d’altra opinione, chidetemi come cazzo sto, ogni tanto, perchè non mi sembra nemmeno più di stare ultimamente.
Volete, volete e volete. I miei immani e atavici sensi di colpa mi costringono sempre a mettermi da parte, a curare le vostre ferite e ad accarezzare il vostro ego insicuro. Perchè quando uno scivola e cade io voglio essere quella che gli tende la mano e lo aiuta ad alzarsi, ma ogni tanto, molto egoisticamente, vorrei che qualcuno facesse altrettanto invece di ignorarmi o di sputarmi la sua vita addosso senza alcun ritengo.
Ogni tanto smettete di guardarvi allo specchio, voltate lo sguardo e ammirate chi avete accanto.

immagine da internet

[E forse un giorno questa lettera verrà urlata in faccia alle persone che lo meritano]

V.

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Sotto la polvere, parole.

Polvere. In questa stanza virtuale vedo polvere, unico indice di cinque mesi passati come se fossero secondi. Mi sembra quasi irreale questo posto, come se appartenesse ad una me che non esiste più.
Quando aprii il blog e gli diedi questo nome, meunexpected, lo feci con la leggerezza di chi si è rotto le palle di veder comparire la scritta ‘questo nome è già presente, riprova’, ma ultimamente sono portata a credere che nulla accada per caso.
Quella che scrive oggi è davvero una me inaspettata. Le me di questi ultimi 3-4 anni sono me inaspettate.
Ho lasciato la sicurezza della staticità.
Tre traslochi in pochi mesi, una ventina e più di case viste, contratti quasi firmati, valige che diventano case, che diventano tutto quello che ti serve.
Si può vivere con così poco, quando hai le cose giuste.
È la mancanza che non riesco ancora a gestire.
Ho fatto tutto quello che dovevo fare,  quello che ci si aspettava facessi. Non sono caduta in pezzi nonostante tutto, nonostante i programmi cambiati all’ultimo secondo, nonostante le incertezze, nonostante me stessa e i miei difetti.
Ma non è finita.
Ora si corre a velocità pazzesca verso…
Non lo so nemmeno io verso cosa.
Ci saranno ancora valige, tanti aerei da prendere, tante cose da fare.
A volte mi sembra di sgretolarmi sotto forze che mi tirano da parti opposte.
Io lo so che la me 18enne mi odierebbe se mi vedesse: vorrei spiegarle che è pur sempre un’avventura, nonostante le cose che probabilmente perderò. A 18 anni credi di poter fare tutto, più avanti ti accorgi che una scelta, un’ unica scelta, ti preclude un mare di possibili possibilità.

È stata una vita rapida quella degli ultimi mesi. Ritrovarsi in questo luogo invisibile è un po’ come tornare a casa: ritrovi alcuni dei tuoi vecchi vicini scribacchini e ti chiedi al contempo verso quali lidi di realtà siano emigrati quelli scomparsi. 
Mi piaceva-mi piace-scrivere, ma presumo che anche qui si tratti sempre di scelte e di tempo a disposizione. Dovrò togliere un po’ di polvere da questo blog, mi sa, e vedere se sotto è rimasto ancora qualcosa.
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