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I nomi delle cose

Il posto che chiamo casa non parla la mia lingua. Il posto che chiamo casa nasce nel deserto e il velo sottile di sabbia che ricopre tutto ogni tanto me lo ricorda. Il posto che chiamo casa ha grattacieli altissimi: per tanto tempo ho camminato con il naso all’insù per riuscire a coprire con lo sguardo tutta l’immensità di questi palazzi. Il posto che chiamo casa è sempre pronto a sbalordirti, ad intrattenerti quasi che la naoia pare un peccato capitale. Nel posto che chiamo casa ho dovuto imparare tutto da capo, anche le cose più semplici. Nel posto che chiamo casa vedo pelle di mille colori e non c’è paura negli occhi di nessuno. Il posto che chiamo casa è pieno di superfici brillanti, abbaglianti, ma se sai scavare trovi anche sostanza. Il posto che chiamo casa è lontano da qualsiasi altra realtà.

Quella che chiamo famiglia posso solo vederla attraverso uno schermo. Mi manca, a volte, il tocco di quella che chiamo famiglia. Il tatto è per me il senso dell’ assenza per eccellenza. Le mani di mia madre che mi sistemano il vestito prima di uscire, il ruvido della barba di mio padre sulle mie guance quando ci salutiamo, gli abbaracci – rari ma stritolanti – di mio fratello, il pelo del mio cane in cui affondo il viso, le carezze timide di mia nonna che teme io sia troppo grande per certe cose. Quella che chiamo famiglia continua a vivere quel quotidiano che per quasi 27 anni abbiamo vissuto insieme, senza di me. Quella che chiamo famiglia litiga ancora, si urla addosso, si incasina, si preoccupa e io li osservo da qui con un distacco – a volte fallace – che ho imparato a costruirmi per non cedere troppo spesso alla mancanza.

Quelli che chiamo amici chiamano casa posti lontani, mangiano cibi strani, prendono in giro gli italiani e si portano l’assenza di qualcosa o di qualcuno sempre in tasca. Quelli che chiamo amici sono anche rimasti in quella che chiamavo casa, senza rischiare nulla, sempre percorrendo le stesse strade, sempre parlando le stesse parole, sempre guardando le stesse facce.

Quello che chiamo marito quando torna, prima di fare qualsiasi cosa, mi da un bacio. Quello che chiamo marito è capace di abbracciarmi forte quando sembra che mi stia spezzando, quello che chiamo marito mi prende la mano tutte le volte che camminiamo per strada. Quello che chiamo marito sembra in grado di fare tutto, senza quasi sforzo. Quello che chiamo marito percorre le strade insieme a me, rallentando il passo quando è necessario, per aspettarmi. Quello che chiamo marito non ha avuto paura nemmeno per un secondo, non ha avuto dubbi nemmeno per un istante. Quello che chiamo marito mi domanda se sono felice e a me basta quello per esserlo.

Quella che chiamo me ha lo stesso nome, ma una sostanza completamente diversa. Quella che chiamo me ha capito che l’essenziale rimane, ovunque tu sia; che il Noi aggiunge valore all’ Io, che ci sarà sempre qualcuno ad aspettarmi, che le scelte – giuste o sbagliate che fossero – portano ad un presente, ed è con quello che dobbiamo fare i conti. Quella che chiamo me riesce a fare cose che non credeva di riuscire a fare, intrappolata com’era nella vecchia definizione di se stessa.

V.

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A 6223 km da casa

Ho scoperto cosa vuol dire aver nostalgia di casa. Proprio io che posseggo la più grande capacità di autocensura dei sentimenti. Invece è sgusciata via – infida –  da quel mio piccolo buco nero in cui tendo a buttare ciò che non deve essere mostrato o affrontato. Non si vive male qui, anzi. Non riesco solo a crearmi una quotidianità, una casa fatta non di pareti ma di abitudini, amicizie, luoghi famigliari. Non riesco perchè una piccola parte di me non vuole, è quella parte che ancora non accetta di essere qui e continua a fare a botte con la realtà. Poi c’è il resto di me: e quella è la parte più complicata da portarsi dietro. Complicata perchè ci sono cose che per me sono imprese titaniche, mentre per altri sono semplicissime. E io li invidio tantissimo. Presa coscienza di non poter essere come tali esemplari magnifici della razza umana – altresì detti estroversi – devo arrabattarmi con ciò che ho: la timidezza, la paura di fare figuracce e un inglese che mi muore in testa se vado troppo in panico (quindi spesso). Però si va avanti.

Si fanno PIANI. I miei piani sono sempre meticolosi e ben strutturati: non potete immaginare quanto mi ci aggrappi e quanto tenda a difenderli anche dal benchè minimo cambiamento. Poi c’è la Vita che quando vede un piano ben fatto – specialmente se mio – si diverte un mondo a prenderlo a sprangate. Me la immagino proprio vestita all’ Arancia Meccanica a frantumare tutti i piani ben congegnati che trova sul suo cammino. Che ci vuoi fare? Piangi, ti lamenti, ma in fondo vai avanti e fai quello che devi fare.

Questo è diventare adulti, credo. Perchè io in fondo mi sento ancora quella sedicenne impacciata e strana che non riusciva mai ad inserirsi. Ed ora che per la società sono ufficialmente, inesorabilmente, definitivamente, adulta mi porto  sulle spalle la me con la maglietta gigante dei Nirvana. Quella me pesa: quella me rimane nelle mie scelte di essere sempre ‘un po’ diversa’. Prendo posizioni e le mie posizioni sono sempre nette: mi rendo conto che non è facile farsi degli amici se si è così intransigenti. Però si è fedeli a se stessi e non ad un pubblico che si incanta con delle false verità su se stessi.

 

V.

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Orizzonti.

Com’è bianca questa pagina.

Vorrei potermi avvicinare e vedere il mio riflesso, riconoscermi. Questo è per me scrivere, è trovarmi o ritrovarmi. Per questo non lo faccio da un po’. Ho lasciato V. a seguire una vita senza portarsi dietro se stessa. Ho lasciato a casa me. Sono stata bene: ero vestita di una parvenza di normalità che penso di non aver mai indossato prima. In problema è che i vestiti si tolgono e la pelle che c’è sotto è sempre la tua, con tutta la tua storia. Sei sempre tu, ovunque tu vada.

Tra gli undici tentativi di iniziare questo post c’era anche l’idea di creare un parallelismo tra vita e scrittura. Peccato che vita e scrittura non c’entrino proprio un cazzo. Basta pensare a quanto sia difficile l’ incipit di qualcosa, un post, un libro, una poesia. Deve essere accattivante, richiamare l’attenzione. Quando nasci arrivi coperto di sangue e placenta, con una corda attaccata all’ombelico e urli. Urli. Credo che vi sia nel pensare comune un’idea romantica dei primi vagiti: il bambino piange per aver lasciato la sicurezza del ventre materno ed essere stato gettato, senza il suo permesso, nel brutto mondo cattivo.

No.

Se non urli appena uscito dal grembo di tua madre, muori. E credo che da lì non si smetta mai veramente di urlare per sopravvivere, per affermare la propria identità, la propria importanza. Sono state proprio delle grida – uscite dalla mia bocca – che hanno rotto, spezzato qualcosa dentro di me. Forse quelle barriere, quelle compartimentalizzazioni dell’anima che ho eretto per evitare che, se una parte era infettata dal dolore, contagiasse tutte le altre. Limitavo i crolli e quindi i danni. Così facendo finisce per mancarti una totalità, un’unicità da mostrare: scegli all’occorrenza un tuo aspetto da mostrare all’interlocutore secondo i suoi gusti. Dimentichi chi sei e ci sarà chi vorrà prendere possesso della tua vita, perché tu gliel’hai concesso.
Emergono istinti di sopravvivenza che non sapevi di avere. Un amor proprio che credevi di non aver sviluppato.

Questa volta non ho lasciato a casa nessuna parte di me, anzi ho ripiegato con cura i miei peggior difetti, le mie mancanze, il mio carattere di merda, le mie insicurezze, le mie paure e le ho portate con me come se fossero un tesoro prezioso. Ho portato tutto, ma proprio tutto. Rimiro le parti peggiori di me, quelle che ho disdegnato, ripudiato, per cui mi sono colpevolizzata. E non vedo l’ora di mostrarle, con orgoglio, a tutti quelli che non giudicheranno.

V.

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Sotto la polvere, parole.

Polvere. In questa stanza virtuale vedo polvere, unico indice di cinque mesi passati come se fossero secondi. Mi sembra quasi irreale questo posto, come se appartenesse ad una me che non esiste più.
Quando aprii il blog e gli diedi questo nome, meunexpected, lo feci con la leggerezza di chi si è rotto le palle di veder comparire la scritta ‘questo nome è già presente, riprova’, ma ultimamente sono portata a credere che nulla accada per caso.
Quella che scrive oggi è davvero una me inaspettata. Le me di questi ultimi 3-4 anni sono me inaspettate.
Ho lasciato la sicurezza della staticità.
Tre traslochi in pochi mesi, una ventina e più di case viste, contratti quasi firmati, valige che diventano case, che diventano tutto quello che ti serve.
Si può vivere con così poco, quando hai le cose giuste.
È la mancanza che non riesco ancora a gestire.
Ho fatto tutto quello che dovevo fare,  quello che ci si aspettava facessi. Non sono caduta in pezzi nonostante tutto, nonostante i programmi cambiati all’ultimo secondo, nonostante le incertezze, nonostante me stessa e i miei difetti.
Ma non è finita.
Ora si corre a velocità pazzesca verso…
Non lo so nemmeno io verso cosa.
Ci saranno ancora valige, tanti aerei da prendere, tante cose da fare.
A volte mi sembra di sgretolarmi sotto forze che mi tirano da parti opposte.
Io lo so che la me 18enne mi odierebbe se mi vedesse: vorrei spiegarle che è pur sempre un’avventura, nonostante le cose che probabilmente perderò. A 18 anni credi di poter fare tutto, più avanti ti accorgi che una scelta, un’ unica scelta, ti preclude un mare di possibili possibilità.

È stata una vita rapida quella degli ultimi mesi. Ritrovarsi in questo luogo invisibile è un po’ come tornare a casa: ritrovi alcuni dei tuoi vecchi vicini scribacchini e ti chiedi al contempo verso quali lidi di realtà siano emigrati quelli scomparsi. 
Mi piaceva-mi piace-scrivere, ma presumo che anche qui si tratti sempre di scelte e di tempo a disposizione. Dovrò togliere un po’ di polvere da questo blog, mi sa, e vedere se sotto è rimasto ancora qualcosa.
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Wishlist

Vorrei essere polvere che si posa sulle superfici del tuo passato, divenendo patina che ne offusca e vela gli spigoli più appuntiti.
Vorrei essere lama per tagliare ciò che solo il sangue può imporre, liberando ciò che di te resta.
Vorrei essere candeggina per lavare via i sensi di colpa che ancora ostacolano le tue decisioni. Vorrei essere peso che serve per il tuo baricentro. Vorrei essere specchio deformante, per riflettere il Vero.
Vorrei essere Difetto per insegnarti ad amarmi.
Vorrei essere Consapevolezza; vorrei essere Respiro quando l’ansia vince; vorrei essere Musica che accompagna le tue giornate. Vorrei essere carta per assorbire i tuoi pensieri; vorrei essere il Fondo per mostrarti che lì non c’è nulla.
Vorrei essere mondo senz’angoli, così che tu non possa nasconderti. Vorrei essere Scelta, non Bisogno; Amore e non Dipendenza.
Vorrei essere Silenzio, così sentiresti solo la tua voce; vorrei essere spalle, così divideremmo il peso.
Vorrei essere vertigine senza paura; vorrei essere limite da superare, punto fisso da cui tornare; vorrei essere mani calde sul tuo viso.
Vorrei essere condivisione senza vergogna; vorrei essere Arte tra le tue dita, amante di chi ha pagato un prezzo troppo alto. Vorrei essere Tempo, per regalarti la guarigione.
Vorrei essere coperta, ma non nascondiglio; vorrei essere le parole che cerchi, senza il dolore che comportano.
Vorrei essere mura solide, vorrei essere chilometri tra te e ciò che eri. Vorrei essere Corpo sul tuo, per annullare vuoti e distanze. Vorrei essere risposte senza necessità di domandare, vorrei essere Approvazione; vorrei essere Pelle che racconta altre storie. Vorrei essere acqua in cui annegare chi non riesci a lasciar andare. Vorrei essere Bellezza per mostrarti il marcio che c’è in me.
Vorrei essere Nulla, così potresti essere Tutto.
Vorrei, vorrei,vorrei…
Indovina cosa? Vorrei fossi Tu e niente più.

V.

Wishlist – Pearl Jam

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Ed io sono qui.

La mancanza è un sentimento che va contro ogni istinto di sopravvivenza. È un selettore emotivo messo in pratica dall’evoluzione bastarda.
Ti tiene aggrappato -con la testa,con le unghie,con il cuore- a qualcosa che non c’è,che non è li, che non tornerà e che magari non è mai esistito.
La mancanza ti tiene fermo. Immobile.
Ti rende preda facile per il prossimo cacciatore.

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Certe cose si trovano solo nel fango.

Sembrava quasi di poterla toccare,l’acqua. Nel buio. Quel rumore di natura che trova il suo corso senza chiedere ‘permesso’,senza chiedere ‘Scusa’.

Si,ho avuto paura.
Si,ho cercato di mettere in uno zaino poche cose, cose ‘di necessità’ senza riuscire a prendere mezzo oggetto in mano.
Si,ero preoccupata per A.
Si,ho visto la città da cui tanto voglio fuggire in ginocchio.
Si,ho visto le strade allagate a 200m da casa.
Si,mi sono stupita quando chi,da lontano,mi ha chiesto se fossi ancora viva.

Ho lasciato a casa l’eyeliner,ho tolto lo smalto,infilato stivali di gomma e messo le mani nel fango.
E sapete cosa ho trovato? Altre mani.
Mani che non mi sarei mai aspettata di trovare,MAI.
Ho riso con gente sconosciuta mentre con l’acqua quasi alle ginocchia abbiamo svuotato cantine.
Abbiamo buttato via ricordi.
C’erano sorrisi.
I militari e il loro buon umore. Pane e salame per tutti. Gli anziani che ti guardano con quel velo d’orgoglio negli occhi mentre passi per strada completamente-e quando dico completamente intendo che il fango ha trapassato i vestiti-sporca dalla testa ai peidi.
[“Ti aiuto” “No faccio da sola”; “Hai fogonata la scuola per venire ad aiutarci?” “Ahahah!Non vado al liceo da un pezzo!”; “Cosa ti dirà tua madre quando ti vedrà conciata così?” ]

Si è altruisti in primis per appagare sè stessi. E poi per farsi dei selfi,che puntuali hanno invaso la rete. ‘Vieni a spalare e avrai i tuoi 15 minuti di fama’. E sta volta non scatterà il pippone anti-mondo,anti-gioventù,anti-tutto. No. Perchè i selfi hanno portato sempre più mani (che si sono riempite di vesciche a forza di spalare),sempre più muscoli ( logarati dai pesi che hanno dovuto trasportare, sempre più schiene ( doloranti come non mai).

Nel fango ho trovato per la prima volta la mia città.

V.

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Sabbia.

È un suono che mi è mancato, quello delle onde infrante in lontanza. Non te ne accorgi sino a quando,in un silenzio surreale come questo fittizio Settembre, il rumore dell’acqua non ti prende di sorpresa,quasi di soppiatto ed inizia a lavare via tutto.
Annegano i pensieri, vuoto nella mia testa. Sulla pelle scivola la stanchezza, trasportata lontano dalle correnti. Acqua nel mio cuore, anche nelle mie vene,acqua nei miei occhi.
Sono fatta d’acqua. Ho la forma di ciò che mi contiene, senza mai mutare nella sostanza.

Vivo trattenendo il respiro solo fuori dal mare.

Sono granelli,leggeri,come quelli che si infilano tra la dita dei piedi dopo una passeggiata sulla spiaggia. Sono granelli,quelli che si depositano lentamente nel mio cuore non appena le mani del dovere mi strappano dal mare. Li immagino scendere,uno ad uno,dall’atrio al vetricolo. Piccoli pesi che diventano macigni.
Ne riesco quasi ad immaginare l’irregolarita’ della forma, ne conosco perfettamente i nomi.
Vorrei poter passare le dita tra le fibre del mio tessuto cardiaco, tra i tendini e le valvole, sfregando via la sabbia che li si deposita.

V.

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Il giorno in cui mi sono sposata.

Come in tutte le favole che si rispettino,Lui era bellissimo. Occhi azzurri,sorriso smagliante,raccoglieva mazzolini di margherite per me. Nell’ingenuità dei suoi undici anni mi voleva sposare a tutti i costi,la nostra casa sarebbe stata la capanna costruita con assi di legno marcio nel bosco. All’epoca passavo l’estate tra le Dolomiti,come una piccola Heidi a caccia di girini e frutti di bosco e Lui era quello che mi  tendeva la mano nei percorsi più difficili,mi proteggeva dalle api e condivideva la ciccolata con me. Era tutto ciò che una bambina di dieci anni potesse desiderare! La sorella,di qualche anno più grande, acconsentì ad organizzare tutto,mentre l’altro membro della compagnia,Nocciolo,avrebbe fatto le veci del prete. Nel bosco sotto casa si trovavano un sacco di mirtilli,il cui succo macchiava tremendamente la pelle. La sorella li usò per dipingermi la bocca e le guance:mi sembra ancora di sentire l’urlo di disperazione di mia madre quando mi vide conciata il quel modo.
Mentre Serena mi impiastricciava la faccia mi disse:”Finalmente vi darete un bacio!Nicolò non aspetta altro!” Panico. “U-un bacio?” Credo di aver ripassato mentalmente tutti i baci visti su pellicola,tentando di estrapolare l’essenza tecnica di quell’atto a me sconosciuto. Ok ci sono le labbra (all’epoca ovviamente il fattore lingua non mi passava nemmeno per l’anticamera del cervello),ma poi? La testa come la metto? Soprattutto avrei dovuto dare dimostrazione delle mie abilità amatorie davanti ad altre persone. Vedendo il terrore nel mio sguardo,Serena tentò di tranquillizzarmi invano. Stavo per mandare all’aria il matrimonio quando si decise di lasciarci,al termine della cerimonia,un po’ di intimità:nel frattempo avrei trovato il modo per distrarre il maritino (solo molto tempo dopo avrei capito che esiste solo un modo per distrarre veramente un uomo. Lo sport,che avete capito?!).
Nicolò mi tenne stretta la mano per tutto il rito- li scoprii con orrore quanto le mani possano sudare-e anche nel breve tragitto sino alla casetta nel bosco. Li davanti,con il succo di mirtillo incrostato sul volto e il cuore che batteva forte,continuava a tenermi la mano. I suoi denti bianchissimi,i miei occhi terrorizzati,i suoi occhi blu,la mia gola secca,le sue mani nelle mie.

Da piccola credevo che un uomo e una donna si incontrassero,si infilassero in eleganti vestiti da cerimonia e decidessero di vivere “felici e contenti’. La storia era tutta li,una lunga passeggiata dal momento dell’incontro al momento del ‘si’,ostacolata,eventualmente,da qualche drago sputafuoco o strega cattiva. Nessuno mi aveva mai raccontato di uomini che sposano uomini,di donne che sposano altre donne,di figli che assistono al matrimonio dei genitori,di genitori che decidono di tradire quel si,di sesso senza amore,di streghe che scopano con il principe,di principesse che in realtà sono streghe.
E nonostante queste allettanti favole da adulti,sono circondata da gente che si sposa,che felice raggiunge questo traguardo,pensando che la lotta sia finita,che la battaglia sia vinta. Il matrimonio è come la scena che prefirisco nei film romantici-quelli all’americana dove il finale è scontato tanto quanto l’intero andamento della storia. La scena in questione-punto fondamentale della trama- è quella in cui lei rincorre lui (e magari lo trova con una,che poi si scopre essere solo la sorella) o,ancora meglio,lui rincorre lei. Che succede dopo?

Dopo ci sarà la voglia di mollare,di scappare,di ferire l’altro. Dopo ci sarà un braccio intorno alla tua Vita ogni volta che ti sveglierai,ci sarà la colazione pronta e panni da lavare. Ci saranno grida,ci saranno risate,ci sarà la voglia di spazi vuoti in cui l’altro non potrà entrare. Dopo ci saranno decisioni da prendere,di quelle che possono spezzare,di quelle che possono ricostruire. Dopo ci sarà chi correrà un po’ più veloce dell’altro,ma si fermerà per aspettare. Per ricominciare a correre assieme. Ci saranno accuse,ci sarà poco ossigeno,ci saranno famiglie ingombranti che spezzeranno l’equilibrio. Ci saranno fotografie per tutta la casa con volti felici,così simili a quelli, ormai invecchiati,che  in quella casa ci abitano.
Ci saranno due mani.
Due mani che continueranno a stringersi nonostante le unghie spezzate,i calli e le ferite,nonostante tutte le cose che hanno afferrato o che avrebbero voluto afferrare,nonostante tutte le carezze,nonostante tutte le botte che hanno dato;due mani in cui è impresso ogni centimentro della superficie dell’altro (ma tutte le volte sarà come scoprirla di nuovo),due mani che continueranno a stringersi anche se i corpi a cui appartengono tendereanno in direzioni differenti.

V.

immagine dalla rete

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Il Paese dei Gatti.

Scrivere significa prendere una parte di sè e spiattellarla sul foglio bianco. C’è chi trova l’ispirazione nella rabbia,chi nell’alcool,chi nell’amore. Essere come sono mi permette di scrivere. Se non fossi così,non ne sarei in grado. Se non fossi così,se fossi una persona ‘normale’ non scriverei.
La mia ispirazione si trova nel ‘Paese dei Gatti’. Il paese dei gatti è un luogo affascinante,ma pericoloso:convinto di potertene andare quando vuoi,finisci per rimanervi intrappolato. Finisci col sbiadire nei suoi confini.
Il mio ‘Paese dei gatti’ non ha colori,spesso non ha nemmeno forme.
Ha suoni.
C’è il fracasso di tessuto cardiaco che si graffia contro lo sterno,a forza di sbatterci. C’è il rumore delle ossa che si modellano sotto il peso di parole dette con leggerezza;c’è il tonfo sordo dell’abbandono.
Ci sono colpi su una porta. [Nessuno l’aprirà]
Il mio ‘Paese dei gatti’ ha tante orme sul pavimento,sul cielo,su spazi bianchi,sui cocci di oggetti che non riconosco,su volti famigliari,su pagine di libri.
Se provo a mettere il mio piede in quell’impronta,i suoi contorni lo accolgono perfettamente. Nel ‘Paese dei Gatti’ ci sono strade che solo io so percorrere,noncurante della destinazione. L’obolo da pagare è l’incertezza del ritorno.
Il tempo è dilatato,un minuto dura ore:solo i segni sul corpo ne scandiscono lo scivolare tagliente.
Nel ‘Paese dei Gatti’ ci sono suoni,ma non ci sono voci. Ogni tanto ci trovo risate.

Io,nel ‘Paese dei Gatti’,sono io. Sono io,ma non ho peso nè dimensione. Sono fatta di riflessi colorati. Il ‘Paesi dei Gatti’ lo sa,è impossibile nascondersi. Il ‘Paese dei Gatti’ mi vuole tenere con sè.

Le porte del ‘Paese dei Gatti’ non sono sempre aperte. È una questione di equilibrio,di pesi. Basta tranciarne uno,il sistema dei contrappesi viene meno e i cancelli di quel mondo si spalancano.
So come aprirli-un filo tirato,così,per distrazione e tutto crolla-ma dimentico come chiuderli.
E se un giono i pesi fossero così ben distribuiti da non poter più accedere a questo mio posto? Scambierei l’essere me,lo smettere di scrivere con un baricetro statico e salvifico?

Il ‘Paese dei gatti’ conosce la risposta e io sento già chiudersi,alle mie spalle,le sue porte.

V.

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*”Il Paese dei Gatti” è un breve racconto contenuto in 1Q84 (libro 1 mi sembra) di Murakami. Vi consiglio di leggerlo!

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