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Orizzonti.

Com’è bianca questa pagina.

Vorrei potermi avvicinare e vedere il mio riflesso, riconoscermi. Questo è per me scrivere, è trovarmi o ritrovarmi. Per questo non lo faccio da un po’. Ho lasciato V. a seguire una vita senza portarsi dietro se stessa. Ho lasciato a casa me. Sono stata bene: ero vestita di una parvenza di normalità che penso di non aver mai indossato prima. In problema è che i vestiti si tolgono e la pelle che c’è sotto è sempre la tua, con tutta la tua storia. Sei sempre tu, ovunque tu vada.

Tra gli undici tentativi di iniziare questo post c’era anche l’idea di creare un parallelismo tra vita e scrittura. Peccato che vita e scrittura non c’entrino proprio un cazzo. Basta pensare a quanto sia difficile l’ incipit di qualcosa, un post, un libro, una poesia. Deve essere accattivante, richiamare l’attenzione. Quando nasci arrivi coperto di sangue e placenta, con una corda attaccata all’ombelico e urli. Urli. Credo che vi sia nel pensare comune un’idea romantica dei primi vagiti: il bambino piange per aver lasciato la sicurezza del ventre materno ed essere stato gettato, senza il suo permesso, nel brutto mondo cattivo.

No.

Se non urli appena uscito dal grembo di tua madre, muori. E credo che da lì non si smetta mai veramente di urlare per sopravvivere, per affermare la propria identità, la propria importanza. Sono state proprio delle grida – uscite dalla mia bocca – che hanno rotto, spezzato qualcosa dentro di me. Forse quelle barriere, quelle compartimentalizzazioni dell’anima che ho eretto per evitare che, se una parte era infettata dal dolore, contagiasse tutte le altre. Limitavo i crolli e quindi i danni. Così facendo finisce per mancarti una totalità, un’unicità da mostrare: scegli all’occorrenza un tuo aspetto da mostrare all’interlocutore secondo i suoi gusti. Dimentichi chi sei e ci sarà chi vorrà prendere possesso della tua vita, perché tu gliel’hai concesso.
Emergono istinti di sopravvivenza che non sapevi di avere. Un amor proprio che credevi di non aver sviluppato.

Questa volta non ho lasciato a casa nessuna parte di me, anzi ho ripiegato con cura i miei peggior difetti, le mie mancanze, il mio carattere di merda, le mie insicurezze, le mie paure e le ho portate con me come se fossero un tesoro prezioso. Ho portato tutto, ma proprio tutto. Rimiro le parti peggiori di me, quelle che ho disdegnato, ripudiato, per cui mi sono colpevolizzata. E non vedo l’ora di mostrarle, con orgoglio, a tutti quelli che non giudicheranno.

V.

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Ed io sono qui.

La mancanza è un sentimento che va contro ogni istinto di sopravvivenza. È un selettore emotivo messo in pratica dall’evoluzione bastarda.
Ti tiene aggrappato -con la testa,con le unghie,con il cuore- a qualcosa che non c’è,che non è li, che non tornerà e che magari non è mai esistito.
La mancanza ti tiene fermo. Immobile.
Ti rende preda facile per il prossimo cacciatore.

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Sabbia.

È un suono che mi è mancato, quello delle onde infrante in lontanza. Non te ne accorgi sino a quando,in un silenzio surreale come questo fittizio Settembre, il rumore dell’acqua non ti prende di sorpresa,quasi di soppiatto ed inizia a lavare via tutto.
Annegano i pensieri, vuoto nella mia testa. Sulla pelle scivola la stanchezza, trasportata lontano dalle correnti. Acqua nel mio cuore, anche nelle mie vene,acqua nei miei occhi.
Sono fatta d’acqua. Ho la forma di ciò che mi contiene, senza mai mutare nella sostanza.

Vivo trattenendo il respiro solo fuori dal mare.

Sono granelli,leggeri,come quelli che si infilano tra la dita dei piedi dopo una passeggiata sulla spiaggia. Sono granelli,quelli che si depositano lentamente nel mio cuore non appena le mani del dovere mi strappano dal mare. Li immagino scendere,uno ad uno,dall’atrio al vetricolo. Piccoli pesi che diventano macigni.
Ne riesco quasi ad immaginare l’irregolarita’ della forma, ne conosco perfettamente i nomi.
Vorrei poter passare le dita tra le fibre del mio tessuto cardiaco, tra i tendini e le valvole, sfregando via la sabbia che li si deposita.

V.

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Il giorno in cui mi sono sposata.

Come in tutte le favole che si rispettino,Lui era bellissimo. Occhi azzurri,sorriso smagliante,raccoglieva mazzolini di margherite per me. Nell’ingenuità dei suoi undici anni mi voleva sposare a tutti i costi,la nostra casa sarebbe stata la capanna costruita con assi di legno marcio nel bosco. All’epoca passavo l’estate tra le Dolomiti,come una piccola Heidi a caccia di girini e frutti di bosco e Lui era quello che mi  tendeva la mano nei percorsi più difficili,mi proteggeva dalle api e condivideva la ciccolata con me. Era tutto ciò che una bambina di dieci anni potesse desiderare! La sorella,di qualche anno più grande, acconsentì ad organizzare tutto,mentre l’altro membro della compagnia,Nocciolo,avrebbe fatto le veci del prete. Nel bosco sotto casa si trovavano un sacco di mirtilli,il cui succo macchiava tremendamente la pelle. La sorella li usò per dipingermi la bocca e le guance:mi sembra ancora di sentire l’urlo di disperazione di mia madre quando mi vide conciata il quel modo.
Mentre Serena mi impiastricciava la faccia mi disse:”Finalmente vi darete un bacio!Nicolò non aspetta altro!” Panico. “U-un bacio?” Credo di aver ripassato mentalmente tutti i baci visti su pellicola,tentando di estrapolare l’essenza tecnica di quell’atto a me sconosciuto. Ok ci sono le labbra (all’epoca ovviamente il fattore lingua non mi passava nemmeno per l’anticamera del cervello),ma poi? La testa come la metto? Soprattutto avrei dovuto dare dimostrazione delle mie abilità amatorie davanti ad altre persone. Vedendo il terrore nel mio sguardo,Serena tentò di tranquillizzarmi invano. Stavo per mandare all’aria il matrimonio quando si decise di lasciarci,al termine della cerimonia,un po’ di intimità:nel frattempo avrei trovato il modo per distrarre il maritino (solo molto tempo dopo avrei capito che esiste solo un modo per distrarre veramente un uomo. Lo sport,che avete capito?!).
Nicolò mi tenne stretta la mano per tutto il rito- li scoprii con orrore quanto le mani possano sudare-e anche nel breve tragitto sino alla casetta nel bosco. Li davanti,con il succo di mirtillo incrostato sul volto e il cuore che batteva forte,continuava a tenermi la mano. I suoi denti bianchissimi,i miei occhi terrorizzati,i suoi occhi blu,la mia gola secca,le sue mani nelle mie.

Da piccola credevo che un uomo e una donna si incontrassero,si infilassero in eleganti vestiti da cerimonia e decidessero di vivere “felici e contenti’. La storia era tutta li,una lunga passeggiata dal momento dell’incontro al momento del ‘si’,ostacolata,eventualmente,da qualche drago sputafuoco o strega cattiva. Nessuno mi aveva mai raccontato di uomini che sposano uomini,di donne che sposano altre donne,di figli che assistono al matrimonio dei genitori,di genitori che decidono di tradire quel si,di sesso senza amore,di streghe che scopano con il principe,di principesse che in realtà sono streghe.
E nonostante queste allettanti favole da adulti,sono circondata da gente che si sposa,che felice raggiunge questo traguardo,pensando che la lotta sia finita,che la battaglia sia vinta. Il matrimonio è come la scena che prefirisco nei film romantici-quelli all’americana dove il finale è scontato tanto quanto l’intero andamento della storia. La scena in questione-punto fondamentale della trama- è quella in cui lei rincorre lui (e magari lo trova con una,che poi si scopre essere solo la sorella) o,ancora meglio,lui rincorre lei. Che succede dopo?

Dopo ci sarà la voglia di mollare,di scappare,di ferire l’altro. Dopo ci sarà un braccio intorno alla tua Vita ogni volta che ti sveglierai,ci sarà la colazione pronta e panni da lavare. Ci saranno grida,ci saranno risate,ci sarà la voglia di spazi vuoti in cui l’altro non potrà entrare. Dopo ci saranno decisioni da prendere,di quelle che possono spezzare,di quelle che possono ricostruire. Dopo ci sarà chi correrà un po’ più veloce dell’altro,ma si fermerà per aspettare. Per ricominciare a correre assieme. Ci saranno accuse,ci sarà poco ossigeno,ci saranno famiglie ingombranti che spezzeranno l’equilibrio. Ci saranno fotografie per tutta la casa con volti felici,così simili a quelli, ormai invecchiati,che  in quella casa ci abitano.
Ci saranno due mani.
Due mani che continueranno a stringersi nonostante le unghie spezzate,i calli e le ferite,nonostante tutte le cose che hanno afferrato o che avrebbero voluto afferrare,nonostante tutte le carezze,nonostante tutte le botte che hanno dato;due mani in cui è impresso ogni centimentro della superficie dell’altro (ma tutte le volte sarà come scoprirla di nuovo),due mani che continueranno a stringersi anche se i corpi a cui appartengono tendereanno in direzioni differenti.

V.

immagine dalla rete

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Il Paese dei Gatti.

Scrivere significa prendere una parte di sè e spiattellarla sul foglio bianco. C’è chi trova l’ispirazione nella rabbia,chi nell’alcool,chi nell’amore. Essere come sono mi permette di scrivere. Se non fossi così,non ne sarei in grado. Se non fossi così,se fossi una persona ‘normale’ non scriverei.
La mia ispirazione si trova nel ‘Paese dei Gatti’. Il paese dei gatti è un luogo affascinante,ma pericoloso:convinto di potertene andare quando vuoi,finisci per rimanervi intrappolato. Finisci col sbiadire nei suoi confini.
Il mio ‘Paese dei gatti’ non ha colori,spesso non ha nemmeno forme.
Ha suoni.
C’è il fracasso di tessuto cardiaco che si graffia contro lo sterno,a forza di sbatterci. C’è il rumore delle ossa che si modellano sotto il peso di parole dette con leggerezza;c’è il tonfo sordo dell’abbandono.
Ci sono colpi su una porta. [Nessuno l’aprirà]
Il mio ‘Paese dei gatti’ ha tante orme sul pavimento,sul cielo,su spazi bianchi,sui cocci di oggetti che non riconosco,su volti famigliari,su pagine di libri.
Se provo a mettere il mio piede in quell’impronta,i suoi contorni lo accolgono perfettamente. Nel ‘Paese dei Gatti’ ci sono strade che solo io so percorrere,noncurante della destinazione. L’obolo da pagare è l’incertezza del ritorno.
Il tempo è dilatato,un minuto dura ore:solo i segni sul corpo ne scandiscono lo scivolare tagliente.
Nel ‘Paese dei Gatti’ ci sono suoni,ma non ci sono voci. Ogni tanto ci trovo risate.

Io,nel ‘Paese dei Gatti’,sono io. Sono io,ma non ho peso nè dimensione. Sono fatta di riflessi colorati. Il ‘Paesi dei Gatti’ lo sa,è impossibile nascondersi. Il ‘Paese dei Gatti’ mi vuole tenere con sè.

Le porte del ‘Paese dei Gatti’ non sono sempre aperte. È una questione di equilibrio,di pesi. Basta tranciarne uno,il sistema dei contrappesi viene meno e i cancelli di quel mondo si spalancano.
So come aprirli-un filo tirato,così,per distrazione e tutto crolla-ma dimentico come chiuderli.
E se un giono i pesi fossero così ben distribuiti da non poter più accedere a questo mio posto? Scambierei l’essere me,lo smettere di scrivere con un baricetro statico e salvifico?

Il ‘Paese dei gatti’ conosce la risposta e io sento già chiudersi,alle mie spalle,le sue porte.

V.

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*”Il Paese dei Gatti” è un breve racconto contenuto in 1Q84 (libro 1 mi sembra) di Murakami. Vi consiglio di leggerlo!

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L’intelligenza delle bionde

Sono bionda,ho gli occhi azzurri e ho il nome di una nota bambola. Lo stereotipo classico mi vuole quindi stupida e tettona. Per carità,le tette ci sono,ma c’è anche un cervello (più o meno) funzionante.
Non è stato ancora istituito un numero per donare due euro in favore della causa “Non maltrattiamo le bionde” e quindi voglio farmi portavoce di questo fenomeno che ormai da decenni ci pone in una posizione svantaggiata.
Figlie di un gene recessivo-e quindi raro-siamo state per secoli bramate da uomini ricchi e potenti che hanno scatenato guerre,depredato regni,conquistato le più enormi ricchezze pur di averci. (E già qui vien da chiederesi chi manchi effettivamente d’intelligenza.)
Rancore divenne l’amante di tutte le brune che attesero silenziose la loro vendetta sino a quando non fu inventata l’arma di distruzione delle bionde:l’acqua ossigenata.
Sfruttando la nota incapacità maschile di notare le più palesi differenze,milioni di brune stupide furono tinte e mandate nel mondo.Programmi tv,telenovele,Mtv e film con DeSica furono pian piano conquistate da queste subdole infiltrate:il biondo divenne inevitabilimente associato alla stupidità e ogni esemplare di bionda era un po’ Pamela Anderson un po’ Paris Hilton,a seconda della taglia di reggiseno.

Per molto ci siamo battute per rivendicare i nostri diritti,per mostrare al mondo che il cervello non era scivolato nelle tette,ma era ancora li-attivo e perspicace-sotto chiome stupendamente bionde. Vani furono i nostri sforzi,ma riuscimmo comunque-grazie alla nostra intelligenza-a volgere la situazione a nostro favore. È stato scentificamente provato che l’uomo in presenza di una bionda abbassa il proprio livello intellettivo a causa dello svilupparsi di uno sterotipo inconscio. Ovviamente l’ossigenata non riesce a sfruttare appieno il rincretinimento dovuto all’annegare dei pochi neuroni maschili nella sovrapproduzione di testosterone,ma la bionda si.

Gli stereotipi sono stupidi e questo è vero come è vero che alle rosse puzza e che alla fine gli uomini sposano le brune!

 

V.

 

*Nella stesura di questo post nessuna bruna è stata maltrattata,ma qualche uomo si.

**La stupidità di questo post è scusata dal colore di capelli di chi l’ha scritto.

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La ragazza che rubava brandelli di vita.

Le mancava un pezzo. Una piccola imperfezione non pregiudicante il funzionamento generale,la rendeva però distante-di un frammento,di un brandello-dall’essere il disegno finito ed intero che la mano della genetica o del divino avevano progettato per tutti gli uomini.
Non sapeva di cosa,quella svista,l’avesse privata:la brama dell’uguaglianza la spinse a rubare dall’altrui perfezione,tentando di riempire quel vuoto dalla forma sconosciuta.
Rubò sorrisi,ampi,dolci ed amari. Li nascondeva tutti in tasca mentre nessuno guardava;allungava la mano,lesta,sull’autostima dai contorni eleganti che alcuni tenevano,noncuranti e sbadati,appesa al giudizio di altri.
Provò con la rabbia,ma le macchiò solo la pelle candida. Tentò con la pazienza,sfilò dalla borsa di qualcuno intelligenza e saggezza.
Scivolò sotto lenzuola non sue per rubare,con il favore del sonno,la forza intrecciata nei muscoli,le bugie addormentate sulle labbra,i sogni nei cassetti mai chiusi a chiave.
Immerse le mani in cuori che a lei si offrirono,scavando in ventricoli e atri vuoti di ciò che andava cercando;distrusse lembi,perse battiti senza nemmeno accorgersene.

Lunghe fila di barottoli di vetro riempivano le pareti di casa, feretri trasparenti di inservibili refurtive, lasciate alla lenta rovina del tempo. Ogni mattina i suoi occhi scorrevano veloci su quel cimitero di brandelli di vita,prima di uscire di casa alla ricerca della propria compiutezza nell’altrui completezza.

Passi svelti tra le vite che incrociava,un giorno s’accorse stupita che la sua mancanza non era più nè difetto nè eccezione.
Aveva reso tutti come lei,imperfetti ed infelici alla ricerca del proprio pezzo mancante.

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Lithium.

-Da quanto tempo?
-Come?
-Signor K.,le ho chiesto da quanto tempo prende i sali di litio.
-Oh. Dottore!
-La vedo perplesso,pensava di parlare con qualcun altro?
-Io…Dottore sta cercando di fregarmi? Non sono mica pazzo,no?!
-Ironia. Interessante. Le capita spesso?
-Solo con chi non la capisce.
-Dicevo,da quanto tempo prende il litio?
-Due anni.
-Nota miglioramenti?
-Non noto più nulla.
-Allora direi che siamo sulla buona strada.
-Non mi chiede come mi sento al riguardo?
-Perchè ha emozioni?
-Ironia Dottore,ironia!
-Prende qualcosa per questo?
-Si,l’esistenza ma tende ad accentuare il disturbo.
-Mh. È finalmente riuscito a trovare quello che stava cercando?
-Si,ma l’ho subito perso. Non sono triste.
-Il litio serve anche a questo. Esce?
-Da dove?
-…
-Non sono sicuro. Ma non mi importa.
-E allora?
-Abbiamo modulato i picchi,giusto? Non ci saranno più alti troppi alti o bassi troppo bassi. Sarà tutto nella media. Non potrò più essere nè Napoleone nè uno scarafaggio…
-Giusto.
-Che senso ha?
-Evita,sostanzialmente, che lei tenti di impiccarsi alla trave del soffitto,spacchi la suddetta, creando un bel buco e  arrecando disturbo non solo a sua madre, ma anche ai sovrastanti vicini.
-Mh. Ma non potrò più essere Napoleone…
-Vuole essere Napoleone?
-No. Non è questo il punto.
-E qual è il punto,mi dica?
-Il punto è: quando la incontrerò là,all’angolo con il lampione spento,lei vedrà la parte mediocre di me. Ad aspettarla non ci sarà un Napoleone nè tantomeno uno scarafaggio. Ci sarà solo la parte mediocre di me. La parte mediocre di me.
-O quella sana.
-Che differenza fa?
-Ritorniamo sempre al discorso della trave.
-D’accordo. Ma…
-Ma?
-La difficoltà nell’amare un Napoleone sta nella vasta superbia del suo pensiero, nell’incompletezza eterna del suo cuore. L’amore per uno scarafaggio dovrà invece scontrarsi con il disprezzo,con la follia di chi preferisce vivere nello sterco,pur potendo sopravvivere ad una guerra nucleare.
-L’amore non deve essere per forza patologia,lo sa?
-Nemmeno la follia lo deve necessariamente essere,potrebbe solo essere una prospetiva diversa nel vedere le cose. Eppure è patologia.
-Le prospettive non cambiano la realtà totale della cosa,ne occludono soltanto porzioni differenti a secondo dell’angolazione.
-Lo sa che io ho dei problemi con la realtà!
-E lei chi dei due vorrebbe essere? Napoleone o scarafaggio?
-Io sono entrambi. Se non fosse per il litio, s’intende.
-Certo. La dose attuale?
-2 mg/L. Sono così eccitato di incontrarla là.
-Descriva eccitato.
-Aumento del battito cardiaco, comparsa di sorriso in assenza di effettivi fattori scatenanti;pensieri proiettati unicamente sull’incontro, si frantumano nelle miriadi di possibilità possibili.
-2 mg/L e lei prova ancora eccitamento? Mi stupisco,francamente,che sia ancora vivo!
-I dizionari in questi casi sono molto utili,dottore. Le definizioni sono diventate le mie emozioni.
-Dovrebbe smetterla di leggere,contrasta gli effetti del farmaco.
-Ho trovato Dio nel guscio di una nocciolina.
-Le capita spesso di trovare Dio?
-Solo quando non mi serve o sono sotto la doccia.
-Parla con lui?
-È una domanda trabocchetto?
-No.
-È lui che parla con me.
-E cose le dice?
-Mi chiede se ho stipulato il cotratto telefonico adatto a me.
-Come?
-Mi chiede se ho stipulato il contratto telefonico adatto a me.
-E perchè secondo lei le chiede una cosa simile?
-Si preoccupa per me. È importante fare le scelte giuste.
-E lei cosa sceglie?
-Io non scelgo,io prendo il litio. Mi spezzerò mai,alla fine?
-Vede…

Bussano alla porta,un’infermiera apre senza attendere il permesso. Infila la testa nella stanza.
-Dottore il suo appuntamento delle 11 è arrivato. Con chi sta parlando?
-Con il signor K.,non vede?
-Ma è solo nella stanza,Dottore.
-Oh.

 

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foto presa dalla rete

 

 

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Sott’acqua.

Se non ti muovi affoghi. Affondi. Spronfondi.
Almeno così dicono. Acqua tutto intorno, veste trasparente che offusca la vista, attutisce il caos, accarezza contemporaneamente ogni mia terminazione nervosa.
E resto immobile. È una pressione che non schiaccia, che non stritola, quella dell’acqua. La nostra fisiologia imperfetta ci impedisce di vivere in questo nascodiglio sicuro. Dobbiamo respirare, dobbiamo riemergere.

Cercare di darsi la spinta con le gambe e con le braccia. Nuotare a rana e andare verso la superficie. Non importa se quel vestito si impiglia su di me. Non importa se le stoffe degli altri mi trattengono. Mi districo e su, su, su. l’acqua è maligna: carezza, ma intanto trattiene forte. E mani e piedi mi sfiorano. In tanti, sì, in tanti stiamo tentando la risalita. Andiamo contro alla sorte e al destino che ci ha voluti qui. Schiavi. Meramente schiavi. Questa è una lotta e io sono il Titano che riuscirà a vincere. Io respirerò.

Banalità è il mio nome. L’Incapacità mi veste,le Debolezze m’amano. Manchevolezza è il mio cognome,il Difetto il mio miglior pregio,Colpa la mia compagnia di giochi. L’acqua si adatta. Nella sua assenza di sapore ritrovo il gusto delle mie virtù,nella sua trasparenza una purezza ormai dimenticata. Il cuore lascia un piccolo silenzio al posto di un battitto, le forze piano piano liquefanno insieme all’aria nei polmoni.

La forza è mia, il tutto io bramo. Il tutto è il nulla, siamo in sua balia. Nella fine, il punto di partenza. La vita, il rumore del mare piano, poi alla superficie affoghiamo ancora. E tutto scorre, ritorna a noi, piccole entità di vacuo suono. Liquefatti anniuamo, felici del disfarsi. La nascita può dirsi grande, miracoli di dei imperfetti, loro epifanie, emanazioni di un capriccio volitivo. Giunti qui, queste corone di fiori di campo e spine, il sangue cola. Finalmente colgo il mio primo respiro. Anemoni.

V. con Nichirenelena  [Spero ti faccia piacere,vito il brutto periodo che stai passando. <3]

Disegno di NuvolaRossa  Il disegno,purtroppo incompleto per casue di forza maggiore,è di Nuvola Rossa.

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Spogliami.

Affondo i denti nel labbro inferiore non appena le tue mani sganciano il primo bottone, all’altezza del collo. Infiniti secondi passano nell’asola, scivolando lenti al secondo, insieme alle tue mani.

Mani che sussultano al ritmo del suo cuore, che spinge il bottone verso di me. Dal collo ormai libero un profumo eterno, dolcissimo, che inseguo con le labbra scendendo la curva verso le spalle.

Il terzo sfugge un paio di volte, geloso custode di altri centimetri della mia pelle. E’ come me. Rifugge il contatto per timore della rottura. La parsimonia di gesti e la delicatezza del tocco fanno cedere anche il terzo bottone, mostrandoti un altro pezzo della mia superficie, che le tue dita sfiorano per un istante.

Al quarto bottone le carezze si fanno pesanti, ché la superficie non basta più a sentire e far sentire, e passione e dolcezza si accapigliano inesauste, accelerando respiro e desiderio.

Il quinto si stacca sotto il peso della tua impazienza, cadendo a terra. Accarezzi il pizzo della mia biancheria, leggero intralcio, frapposto tra me e te. Oltrepassi l’ostacolo di stoffa, poggiando l’orecchio al centro esatto del mio petto.

Il sesto bottone sono i minuti che anticipano l’attesa. Hanno il sapore dell’istante che precede il possesso, l’odore della fretta, il sapore della tua bocca. Disegni piccoli cerchi sulla mia pancia, con le dita, giocando con il mio desiderio.

Cede il settimo e m’inchino sull’ombelico, inebriandomi dove l’odore si fa aspro, più femmina, impazzendomi il sangue, la bocca, le mani. La sua pelle e la febbre nelle mie labbra, nelle dita che sganciano l’ultimo sigillo, scatenando l’attesa di un piacere infinito.

 

V. in collaborazione con Witt1980 (che dovrebbe decisiamente scrivere più spesso. Ma già lo sa.)

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